RedLight District

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~ s u v e _tt a
view post Posted on 23/11/2008, 19:05




RedLight District - Distretto rosso chiaro
Quando a entrare nel vicolo è un innocente.



Premetto che è una FF piuttosto particolare, lugubre magari. Ho preso spunto da tante notizie sentite in tv, lette sui giornali, ho provato a immaginarle addosso ai panni dei TH, e credo di aver esagerato, ma alla fine le cose dove non si esagera un pò non ti invogliano nemmeno a considerarle.
Buona lettura, sperando di poter scrivere i capitoli abbastanza presto visto che per ora sto molto poco al pc!

Capitolo 1

Il bicchiere era sull’orlo del tavolino, anche se fosse caduto non avrebbe fatto molto danno considerando che il suo contenuto era già stato bevuto fino all’ultima goccia. Silenzioso compagno di dita tremanti, di occhi rossi e quel senso di bruciore in gola che ti porti dietro dopo. Puzza d’alcool e di coca nell’aria. Puzza di sigarette che ancora non erano del tutto spente dentro quei posacenere. Divanetti di pelle lucida davano l’impressione che quello fosse un posto piuttosto elegante. Un grande specchio dominava una parete. Grande, per farti vedere davvero tutto ciò che sei, non una parte, non uno spicchio. Tutto. Sul parquet passi invisibili tracciavano vite che si incrociavano, che si allontanavano e che tornavano indietro, come se una palla al piede le tenesse legate a tutto quello. Scosse la testa passandosi una mano sul volto. Non era bello trovarsi lì, non se sei lì per qualcun altro. Era tutta un’illusione. La gente per bene. Non c’era gente per bene in un posto come quello. Però c’erano delle vittime, ingenui che si erano lasciati abbindolare dall’ebbrezza della trasgressione con le foto scandalo in copertina. Ma a lui non importava singolarmente di ognuno di loro, anzi provava disgusto solo nel vederli, nell’incrociarli camminando in mezzo a loro. Ma c’era qualcuno che era troppo importante per essere lasciato lì fino all’alba del giorno dopo, o del giorno dopo ancora. Quel qualcuno aveva sofferto, e soffriva ancora. Un qualcuno che non era mai stato pronto ad affrontare quella triste storia. Quella triste e disgustosa storia che si era ripetuta sulla sua pelle. E tutto quello era un sorta di punizione. Ma punizione per chi? Chi stai punendo in questo modo? Eccolo. Come al solito. Come al solito di adesso, di questo tempo. Non come prima. Ammesso che prima ci fosse davvero un equilibrio dentro la sua testa.
-Alzati dai.. per stanotte basta..- quelle parole uscirono dopo un sospiro, e avevano la stessa compensazione. Nessuno le aveva sentite, nessuno poteva sentirle con quella musica a volume alto. Orribile musica tecno, house o come si preferisse chiamarla. Tutto frutto di un dj da quattro soldi alla consolle. Serviva per nascondere i lamenti di chi vomitava in bagno? Che fosse per necessità oppure autoindotto con due, tre dita in gola. Un gracile corpo era completamente buttato su un divanetto, accanto un tavolino con un bicchiere in bilico, fialette, una bottiglia di grappa addolcita con del succo di ananas. Non era tutta roba sua, anche se in quel periodo si stava davvero buttando su qualsiasi cosa riuscisse a trovare. Qualsiasi, e a volte sembrava anche portarsela bene la sbornia.Per terra bottiglie di alcolici presi al bancone sorridendo allegramente al barista per evitre di pagare, sicuramente. Poche ancora piene. Intorno troppo schifo. Ma ormai aveva perso il conto di quanti ambienti di quel genere aveva visto. E quello che faceva più male. Quella scia bianca tirata su a fatica dopo aver bevuto troppo. Più di una scia. Cercò di pensare che a tirare non era stato il solo. Che con lui c’era qualcuno.

-Oggi andiamo insieme a fare la spesa?- disse con gli occhi dolci piegato sulle ginocchia. Voleva essere più importante di quella chitarra, voleva essere ascoltato. In fondo sapeva di non pretendere troppo. Quegli occhi erano così belli mentre erano assorti sulle corde, mentre i battiti li contraevano e quel piccolo gesto, insignificante per chiunque altro, diventava così perfetto e importante. Così bello per distoglierne lo sguardo.
-Sai che per ora ho in mente quel pezzo.. ci lavoro da due giorni se non lo concludo andrò a lavorare in miniera per non farmi più vedere in giro!- rispose sorridendo mentre con una mano gli accarezzava la testa cercando in qualche modo di essere il più dolce possibile. Era tutto quello che poteva dargli in quel momento. Lo sapeva bene. Perché poteva dargli così poco?
-Mi stai trascurando per ora!- un broncio oscurò il suo volto.
Gli baciò piano la fronte. –Scusa, vedrai che saprò recuperare.-

Un gemito riaccese in lui la speranza che fosse ancora sveglio e non del tutto addormentato, o svenuto. O comunque, quel gemito significava che forse non era il caso di correre in clinica di nuovo. L’ultima volta entrare con la barella era stato quasi impossibile perché un’orda di paparazzi si era fiondata su di loro. E come al solito il giorno dopo era sulla bocca di tutti. Nessuno riusciva ad avere rispetto della sua vita. Nessuno ce l’aveva mai avuto forse. Ma prima erano importanti e per questo tutti i giornali parlavano bene di loro. Una ragazza arrivò barcollando, tenendo tra le dita una sigaretta consumata a metà, che puzzava di qualcosa di diverso dal tabacco. Anche questo rientrava nei parametri. Aveva un vestito troppo scollato per la sua età. Ed era troppo magra per la sua età. Si accasciò accanto al ragazzo, non staccando le labbra, che all’inizio della serata dovevano essere dipinte di rosso, dalla sigaretta, aspirando avidamente ad occhi chiusi. Forse non capiva nemmeno quello che faceva, doveva essere una specie di gesto meccanico. Una cosa che ti viene spontaneo fare dopo un po’. Poi la sua mano andò a cercare qualcos’altro, spostandosi sul pantalone del ragazzo che non accennava un movimento, e nessun segno di vita. A quel punto Tom non ci vide più. Tirò su la ragazza da un braccio lasciando che cadesse per terra, mentre col fianco prese in pieno un braccio della poltrona. La sigaretta le cadde di mano rotolando chissà dove. Non aveva mai avuto tanto freddo e odio dentro come in quel momento. Avrebbe voluto vederla morire davanti ai suoi occhi. Come era morto il qualcuno che aveva davanti. Era morto dentro e il suo desiderio di morire fisicamente sembrava concretizzarsi e far paura ogni giorno di più. Ogni giorno di più. Come un’ossessione per staccare da quel mondo schifoso che l’aveva annientato e l’aveva spezzato in due. E Tom sentiva che sarebbe morto senza di lui. E continuava a guardarlo distruggersi per poi portarlo di nuovo via, pur di tenerlo ancora attaccato alla vita. Anche se il suo mal di testa non faceva che rendere più difficile l’operazione, si mise un braccio del fratello attorno al collo cercando di alzarlo in piedi. Aveva la faccia pallida, magra. Molto, troppo più magra di quando ancora quella storia non era ancora iniziata e tutti gli dicevano di essere anoressico. Parlavano senza sapere un cazzo. Avevano sempre sputato sentenze ignorando troppe cose che in fondo non erano poi interessanti da sapere.
-Cerca di stare dritto.. svegliati.. Bill..- un colpetto sulla guancia, ma niente. Era strafatto, e puzzava di alcol da morire. E sicuramente le macchie sui vestiti erano dovute all’ennesimo bagno. All’ennesimo vomito sulle piastrelle del muro prima di poter arrivare alla tazza.
- Bill.. svegliati ti prego..- era come parlare da solo. Simone sarebbe svenuta a vederlo ridotto in quello stato. Ma era successo. Era. Era stata lei a portarli lì tanti anni prima. La ragazza doveva essere svenuta anche lei, perché non si era nemmeno alzata, né tantomeno aveva fatto alcun movimento. Nessuno intorno sembrava preoccuparsi minimamente di lei. Facevano finta che semplicemente non esistesse. La musica era cambiata, una specie di musica dai toni dark remixati ora aveva lasciato il posto alla precedente house.
- Tom.. serve aiuto?- quella voce così familiare, in quel momento sembrava quasi stonare con quella situazione, loro tre sembravano essere i protagonisti sbagliati di una storia sbagliata.
-Grazie.- sussurrò Tom prendendo meglio il braccio del fratello. Bill tremava ed era sudato. Era come tenere in braccio delle ossa, se prima potevano prenderlo in giro adesso non era più nemmeno il caso.
Georg si avvicinò e prese l’altro braccio passandoselo sulle spalle, guardando con rassegnazione quello che rimaneva di uno dei suoi migliori amici. La stessa persona che prima giocava con un aeroplanino radiocomandato e che adesso l’aveva lanciato dalla finestra ridendo mentre si schiantava contro l’asfalto distruggendosi in mille pezzi. Jumbi non volava più e non l’avrebbe più potuto fare. Forse l’aveva visto ridotto peggio altre volte. Ma non riusciva a farci l’abitudine. Il trucco sbavato risaltava con le occhiaie nere e con le labbra violacee. Anche le braccia erano violacee. Si trascinarono piano fuori dal privè, scostandosi da quella massa informe che ballava senza capire nemmeno perché stessero vivendo. Di quei cosiddetti amici, volti che prima potevano avere un qualcosa di amichevole, ma che adesso facevano solo schifo. La musica faceva tremare il pavimento. Era uno dei locali che Bill aveva preso a frequentare spesso. Dove l’ingresso è riservato. Se sei in lista puoi entrare. E Bill era sempre in lista. Bastava anche solo andare a letto con l’organizzatore. Andare a letto con chiunque. Perché ormai non gli importava più di niente. E il suo corpo non gli apparteneva più. Gustav stava parcheggiato davanti all’entrata con la BMW. Con la testa poggiata sopra il palmo della mano mentre l’orologio ticchettava e segnava le tre e dieci. Aveva solo voglia di chiudere gli occhi e lasciare che il cd dei Metallica facesse scomparire quel posto dalla sua vista. Una volta bastava questo per rilassarsi. Per liberare la mente prima di un concerto. Ma ormai era tanto tempo che non si esibivano da nessuna parte. E soprattutto nessuno voleva che si esibissero. Lo sportello di destra si aprì, erano loro. Senza esitazione Gustav si sporse indietro per aiutare Tom a sistemare Bill nel sedile. Bill sboccava e lasciava uscire qualche gemito di fastidio.
-Spero che non vomiti ancora..- disse preoccupato Tom chiudendosi dietro la portiera e sedendosi accanto a lui accarezzandogli dolcemente la testa come faceva da sempre. Quel piccolo gesto di tenerezza e amore che forse Bill non ricordava nemmeno più. Perché quello non era più di sicuro il loro Bill.
-Ha vomitato sangue ieri.- disse mentre un singhiozzo deviò un po’ il suono dell’ultima parola.
-Perché non hai provato a fermarlo?- disse Georg. Forse era colpa di Tom. Ma era troppo facile scaricare il barile. Se solo.. era inutile guardarsi indietro. Se solo. E se? Non c’era un se.
-Tanto non mi avrebbe ascoltato. Ormai non lo fa più, fa semplicemente finta che stia bene così senza di me. Non ce la faccio più a vederlo ridotto in questo stato. Come se sia in una specie di trans, come se stesse dormendo e qualcun altro muove il suo corpo come una marionetta. Se non ci foste voi suppongo che sarebbe già morto. E anche io.-
Silenzio. Gustav mise in moto il motore, mentre dentro quell’abitacolo pulito si diffondeva la puzza di un mondo che faceva paura. E che sapeva di tristezza.

Mi sono sempre chiesta cosa ci fosse dietro al fenomeno Tokio Hotel. Non si può paragonare quello che hanno scatenato ad una semplice moda giovanile. Le mode arrivano e poi spariscono silenziosamente senza che nessuno se ne accorga. Non fanno mai molto male, fanno solo confusione. Quello che i Tokio Hotel hanno dato vita non è stato niente del genere. Cosa spinge un assedio di giorni, settimane, davanti all’entrata di un cancello per vedere un concerto? Cosa spinge delle masse di ragazzine a spaccare vetri, scappare di casa, tingersi i capelli, rischiare l’anoressia? Non mi sembra una cosa concepibilmente attribuibile a una moda questa. I Tokio Hotel stanno facendo chiasso. Molto chiasso. Anche tra chi li disprezza. Ma il detto dice “parlatene bene, parlatene male, l’importante è che se ne parli” e sembra quasi diventato difficile non fare un commento sarcastico o lasciarsi scappare un insulto su di loro. Su Bill, il cantante con la voce da donna e che lo sembra appieno. Che si alza i capelli in aria e tutti danno per gay. Non è di moda. Nessuna rivista ha mai detto niente del genere. Era semplicemente scritto da qualche parte che prima o poi sarebbero arrivati questi quattro a far parlare di loro. Guardateli bene.. cos’hanno di così speciale? Ebbene, non lo so. È un anno che li seguo e ancora non riesco a capirlo. Eppure c’è qualcosa che diventa una specie di calamita non appena senti una canzone. Sarà l’orecchiabilità. Sarà che sono giovani e freschi. Sarà che c’era voglia di cambiamento, perché i soliti gruppetti pop dicono sempre le stesse cose. Ho smesso di domandarmi troppe cose su di loro. Spero solo che l’impronta che hanno lasciato non venga coperta di fango, perché c’è troppa gente che si ferma a crederci e che si è davvero innamorata di un paio di occhi scuri. E non saranno i primi emergenti a far voltare pagina. Perché chiunque arrivi ci sarà sempre la solita sfida. Tokio Hotel VS..? Chi arriverà stavolta a sfidare il trono a quattro adolescenti che non sapranno mai davvero cosa vuol dire la parola libertà? E’ facile parlare, parlare e dire che hanno tutto. Perché non è vero. E questa FF è solo diversa dalle altre. Perché il mondo non è mai stato rose e fiori. Ma quando in ballo ci sono milioni di ragazzine minorenni si deve sempre sorridere, perché VA TUTTO BENE. Quando ti accorgi di non poter più fingere mentre gli occhi sono puntati su di te, inizia la strana strada della tortura. Del dimenticatoio. Ma perché tu vuoi essere dimenticato?

-Non lo so. Non lo voglio sapere. Non voglio più saperlo di cosa si fa..- Gustav chiuse la discussione prima che giungesse sempre allo stesso maledetto punto. Andreas, con la tazza di caffè bollente accanto per rimanere sveglio, scuoteva la testa. Era un periodo nero. Uno di quei periodi che è meglio far finta di non vivere se si vuole davvero continuare ad averla una vita. La band era completamente assediata dalla stampa, i giornali non facevano altro che pubblicare le foto che segnavano il loro “declino”. I fan diminuivano forse spaventati o attirati da gruppi emergenti con le facce pulite tipiche dei ragazzi della porta accanto. Spaventati. Chi avrebbe ancora sostenuto una band, se si poteva ancora definirla così, che finiva sui giornali mentre i caratteri dei titoli sembrano voler dire solo morte? Ma c’erano quelli che continuavano a mandare lettere, cartoline, regali. Che pregavano e speravano di rivedere Bill sul palco come i vecchi tempi. C’erano quelli che continuavano a crederci e che ci avrebbero sempre creduto. I Tokio hotel sono morti, era questo che si sentiva dire in giro da tempo ormai. I Tokio Hotel erano morti perché avevano chiuso gli occhi un attimo fidandosi di quel mondo. E quell’attimo era stato fatale. Casa di Andreas era l’unico posto dove i ragazzi potevano rifugiarsi. Gli hotel erano rischiosi, li scoprivano troppo facilmente. Malgrado Andreas avesse dovuto trasferirsi dalla sua precedente abitazione, in un’altra che nessuno conoscesse ancora. Ma non si poteva fuggire, ormai era scontato. Un scorta di guardie del corpo rimaneva sempre nel pianerottolo a controllare che non ci fossero occhi indiscreti. La Universal aveva ancora l’obbligo di proteggerli. Anche per tenere a bada ciò che nessuno doveva sapere fosse successo.

Capitolo 2

Tom aveva gli occhi rossi dalle lacrime. Non si sarebbe mai aspettato una cosa del genere. Gustav non sapeva cosa fare, si sentiva terribilmente piccolo in confronto a quella situazione e soprattutto non aveva mai affrontato una cosa simile. Abbracciò forte l’amico mentre lo sentiva tremare, ed era come se anche le sue ossa stessero tremando. L’ambulanza era appena andata via, ma non c’era niente che potesse essere curato in quella stanza. Era tutto lì. Per terra. In una siringa e un laccio di plastica gialla buttato a casaccio sopra una sedia.
-Mi odia..- ripeteva disperatamente Tom tra un singhiozzo e l’altro. -L’ho perso per sempre..-
L’avevano trovato privo di sensi, con la pressione bassa. Georg era scappato con l’ambulanza, Tom era rimasto pietrificato, non riusciva nemmeno ad alzare lo sguardo da terra. Non era ancora pronto per correre dietro all’ambulanza sapendo che dentro c’era suo fratello. Era la prima volta, la prima di una lunga serie. E Bill aveva subito imparato come fosse facile mettersi un ago nel braccio e non capire più niente. Ma poi aveva scoperto il resto. Quando non hai problemi di soldi trovare la roba non è affatto difficile.
Erano finiti i tempi di Durch den monsum. Delle caramelle gommose a quintali. Delle serate dove si rideva mentre la fatica faceva chiudere gli occhi e non c’era voglia di dormire. Il mondo dorato che li aveva cullati e accompagnati era diventato una trappola mortale e si era trasformato in una specie di incubo dove è tutto realtà. E i sensi di colpa non potevano non calpestarti la coscienza se sapevi che se tu ci fossi stato non sarebbe mai cominciato niente.

-Sta dormendo.. il peggio è passato anche stavolta.- Natalie si prendeva cura di loro come una seconda madre. Si prendeva cura di Bill anche se lui non voleva che nessuno lo compatisse. Effettivamente non voleva che nessuno gli si avvicinasse. Qualche giorno prima aveva urlato prima che Gustav potesse toccarlo. Era davvero spiazzante. Diceva che sapeva quello che faceva, che voleva solo divertirsi una volta tanto, e voleva essere lasciato in pace. Ma nessuno voleva accontentarsi di una balla del genere. Non detto da un ragazzo pieno di allegria come lui che aveva sempre odiato quello stile di vita. Si sedette nelle sedia libera accanto ad Andreas accendendosi una sigaretta, ma poi la spense subito, immaginando quante se ne potesse fumare Bill in una giornata. Fumava poco prima, nemmeno dieci in una giornata. Ora dieci erano il minimo.
- Tom?- chiese a voce bassa. Bill li costringeva a fare le nottate, gli straordinari a qualsiasi ora. A vivere nel completo terrore di non arrivare in tempo a tirarlo fuori. E tutto questo si ripercuoteva addosso come una malattia. Natalie sembrava invecchiata di dieci anni, non si curava più di tanto. Eppure quando Bill si risvegliava sembrava come se andasse tutto bene. Di solito non ricordava mai niente della sera prima, parlava poco, diceva solo di avere mal di testa e voglia di dormire ancora. Come se la sua vita fosse sotto controllo. Non voleva ordini. Faceva quello che voleva e usciva da solo. E trovarlo diventava sempre più difficile perché era diventato bravo a far perdere le sue tracce, malgrado intorno a lui ci fossero continuamente e perennemente paparazzi, giornalisti e fan terrorizzate e preoccupate. Il mondo intero aveva gli occhi puntati su di lui e non gli importava. Aveva sempre amato la popolarità, vedere la sua foto sulle riviste, andare in giro ed essere riconosciuto. Ma il Bill che prima sorrideva ai fan e non rifiutava mai di fare una foto insieme, adesso si nascondeva dietro una scorta per non farsi nemmeno sfiorare. Scorta che doveva assolutamente ubbidirgli come dei cani. Aveva già cacciato parecchi bodyguard perché a parer suo non erano efficienti.

Era appena finito il concerto. Come al solito Tom si sarebbe portato qualcuna nelle sue stanze d’hotel. Succedeva sempre più spesso che ne approfittasse per prendere quelle pillole. Quelle che Bill gli aveva trovato nella tasca dei pantaloni. Metamfetamine. Tom gliene aveva parlato. Ultimamente era depresso, aveva perso fiducia in quello che credeva davvero rappresentasse la sua vita. Non voleva parlare con uno psicologo, era sempre stato un tipo molto orgoglioso. Il problema principale era che Tom non era più sicuro di volerla quella vita. Gli assedia menti delle fan, i vetri spaccati con le mani l’ultima volta che in macchina erano praticamente stati circondati dalle fan. E la transenna buttata giù mentre passavano. In quel momento sentì solo una parola nella sua testa: panico. Si sentiva, come del resto anche gli altri tre, come se ovunque andasse non ci fosse una via di fuga per poter camminare da solo, senza aver paura di fare un passo. Dopo il successo in America anche lì la situazione era peggiorata decisamente. E quello era l’unico modo che aveva per tirarsi su. Sotto consiglio di un “amico” che gli aveva detto che con quelle pillole ci si sentiva da dio. Ma Tom non era un drogato. Aveva esagerato solo una volta. Vedere le luci che diventavano buio all’improvviso mentre si accasciava per terra era servito a fargli capire che non era uno scherzo quello in cui si era cacciato. Sentire la puzza di disinfettante delle siringhe dell’ospedale. Respirare con una mascherina attaccata alla bocca e sentirsi così stanchi da non poter muovere nemmeno un’articolazione. Forse si lasciava andare a bere. Ma lo facevano sempre tutti e quattro. Fin da quando andavano ancora a scuola la sera adoravano riunirsi ai pub e tornare a casa completamente sbronzi e barcollanti. In fondo non c’era niente di male nel farlo, non guidavano ubriachi, non andavano in giro a fare pazzie. Erano giovani e avevano voglia di evadere dalle regole ogni tanto. Chi non l’ha mai fatto? Ma comunque era un problema superato. Adesso il problema era che Tom trattava le ragazze che si portava a letto come delle sgualdrine. La metà erano minorenni e tutte fan che si spacciavano per groupie ai concerti esibendo reggiseni in pizzo e scritte provocatorie. Aveva approfittato della situazione. Aveva sempre avuto la fama di essere un donnaiolo. Dopo una scopata via, buttate nel corridoio dell’hotel senza più averne bisogno. Bill si era disgustato di quello che era diventato, aveva deciso di parlargli, prima che qualche genitore o qualche ragazza gli facesse causa in tribunale per abuso di minore e la loro reputazione così sarebbe andata a farsi fottere sul serio. Ringraziava il cielo che non fosse ancora successo. Soprattutto perché il loro pubblico di fan era costituito da minori che non avevano intenzione di andare ai concerti di un gruppo di pervertiti. Dopo il concerto c’era sempre confusione, dovevano scappare nei guardaroba a cambiarsi per lasciare lo stabile e andare all’hotel oppure all’aeroporto se bisognava partire subito. Non c’era mai tempo, ma non gli importava. Appena dopo l’inchino scappò dietro le quinte avvisando la scorta che lui e suo fratello dovevano perdere un po’ di tempo e poi avrebbero raggiunto Georg e Gustav con la seconda macchina. Tom arrivò poco dopo, ancora euforico e saltellante. A vederlo ogni pregiudizio si sarebbe eclissato. Ma non era così dentro quelle suite.
- Tom!- gridò Bill senza scomporsi troppo. Il fratello lo guardò come a dire “beh?”. Gli fece cenno di avvicinarsi, riuscendo a rimanere freddo e serio come non gli era mai riuscito prima forse.
-Cosa c’è? Dobbiamo andare..!- Bill lo prese per un polso e lo trascinò fin dentro il guardaroba deserto. Non erano discussioni che potevano fare davanti a tutti. Tom non capiva cosa stesse facendo ma non fiatò. Bill chiuse la porta e si sedette. Sentiva che dentro provava disgusto a vederlo così calmo.
-Mi fai schifo Tom..-
Non poteva scegliere parole migliori per evitare un discorso inutile e troppo lungo. Ed erano parole che facevano male. L’espressione di Tom adesso era molto diversa. Si contorse nervosamente le mani e poi si sedette davanti al gemello, con la sguardo basso e un sentirsi a disagio, tremendamente a disagio. Bill non si mosse di un millimetro né lo abbracciò perdonandogli tutte le sue colpe come accadeva nei film. Cazzo avevano diciotto anni. Non era più il caso di giocare col fuoco, né tantomeno con le persone. Con le persone che rendevano possibile la loro vita da star in fin dai conti. La maturità che dovevano aver ottenuto dov’era? Bill poteva anche essere il moralista del gruppo su determinate cose, ma quando si trattava di Tom non era solo morale la sua.
Ancora silenzio.
Non era per rimanere in silenzio che si erano chiusi in quel guardaroba. Bill si alzò senza dire una parola, stava solo perdendo tempo e nel momento sbagliato. Tom non sapeva che dire. Guardava le gocce di sudore scivolare dolcemente sulla fronte di suo fratello, e si sentiva scivolare tanto in basso mentre non riuscivano a guardarsi in faccia. Loro che si erano tenuti per mano ancor prima di nascere. Bill aprì la porta del guardaroba senza guardarlo. Forse avrebbe capito da solo, prima o poi.

- Tom?- il ragazzo sembrò finalmente sentire. Un sospiro. –Questa storia non può andare avanti.- Natalie sembrava più disperata che preoccupata in quel momento.
-Me ne rendo conto.- Tom continuava a guardare fuori dalla finestra.
-Lo sai che l’unica soluzione..- Natalie si passò una mano sulla faccia e abbassò lo guardo fissando il tavolo.
- Bill non andrà all’ospedale psichiatrico. Non ha bisogno di quello. Non basta. Non lo aiuterebbe. Lo farebbe solo sentire prigioniero.- disse con tono determinato. In quella stanza sembrò quasi attraversare i pensieri di tutti i presenti, quasi fosse l’ultima cosa che andava detta in quella discussione.
Natalie lo guardò mentre i suoi occhi sembravano diventare scuri. –Vuoi che si uccida con le sue mani allora?- La sua voce era dura, severa. La parola di Tom non era stata l’ultima.
Tom voltò di scatto la testa verso di lei. –Io non so quello che devo fare, Natalie.- Tom scandì bene il nome della donna, quasi con tono ostile.
Georg si alzò dalla sedia cercando di fare più rumore possibile. –Direi che non è il momento di affrontare ora quest’argomento. Siamo tutti stanchi, è tardi. Ed è meglio andare o almeno cercare di dormire.-
Natalie riprese la sigaretta e la riaccese, facendo un tiro e buttando il fumo di lato. –Buona notte allora.-

Tom si sedette sul bordo del letto. Bill era in un sonno profondo non si sarebbe accorto della sua presenza. Della mano che adesso stringeva la sua, delicatamente, come se avesse paura di rompere quella pelle fredda e calda al tempo stesso. Dov’era finito lo smalto perfetto di Bill? Le unghie sempre perfettamente curate che invece adesso erano state tagliate corte, corte e rosee del loro colore naturale. E da quando in qua Bill si mangiava le pellicine tutte intorno? C’erano ferite in ogni dito. Nervosismo? Forse non se ne accorgeva nemmeno, non ci faceva più caso nemmeno che si mangiava le pellicine.

-Tom smettila! Non devi mangiarti le unghie lo sai che le mani rovinate sono brutte da vedere!- disse severamente Simone allontanandogli le dita dalla bocca. Tom protestò facendo resistenza.
-Nessuno mi deve guardare le mani mamma!-
Gordon si mise a ridere. –Che figura ci fai con le ragazze? Avere delle belle mani rende attraenti!- disse accarezzandogli la testa.
-Dovresti prendere esempio da tuo fratello!- Simone si voltò a guardare Bill che le sorrideva illuminato mostrando senza timidezza le sue unghie perfettamente laccate di nero.
-Ok. Forse non proprio.- concluse la donna schiarendosi la voce e tornando a concentrarsi sul piatto che aveva davanti.
Tom e Gordon cercarono di trattenere qualche risata, mentre Bill, con aria indifferente, aveva alzato un sopraciglio inforchettando un altro involtino.
-Siete solo invidiosi.- aggiunse rimanendo completamente indifferente alla situazione.
Tom ancora ridacchiando si alzò dalla sedia andando dietro il fratello e abbracciandolo.
-Hai ragione Bill siamo invidiosi delle tue belle unghie!- e continuò a ridere, mentre anche Bill sorrideva.

Tom sorrise ripensando a quella volta. Avevano ancora quattordici anni e tante cose da scoprire. Erano ancora così piccoli e ingenui, inconsapevoli che da lì a poco sarebbero stati sulla bocca di tutti e sui giornali. Bill faceva qualche smorfia mentre dormiva. Doveva avere il sonno agitato. E del resto con tutta la roba di cui era fatto doveva anche essere normale. Tom sentiva ancora la puzza di alcool sulla sua pelle, malgrado l’avessero spogliato e messo a letto, Bill sembrava essere perfettamente fuori luogo in quella stanza.

I gemelli erano seduti al tavolo della cucina svolgendo i loro compiti. Simone e Gordon invece erano in salotto a guardare la tv, appisolati sopra il divano.
Bill lasciò cadere la penna sul quaderno e poggiò il mento sulle mani.
-Dì la verità Tomi, le mie unghie sono brutte.- esclamò sommessamente fissando la penna davanti a lui.
Tom lo guardò quasi spiazzato. Bill era sempre stato sicuro nel suo stile. Adorava truccarsi e colorarsi le unghie. Nessuno gli aveva mai proibito di farlo del resto. I Kaulitz erano una famiglia dalla mentalità molto aperta e rispettosa della personalità più che dell’apparenza.
-Ma no, cosa stai dicendo? Le tue unghie sono perfette su di te, ma su di me starebbero male!- Tom gli prese la mano sorridendo. Bill non disse niente. Ma il suo sguardo sembrava dire semplicemente: grazie.

Capitolo 3

Bill si rigirava nel suo letto da un’ora ma non riusciva proprio a dormire. Quel pomeriggio aveva trovato nella libreria di casa un libro sui misteri della Germania, fantasmi, spiriti e maledizioni varie. Aveva una copertina davvero spettrale che l’aveva affascinato e riempito di curiosità. Questo genere di storie l’avevano sempre attratto molto più delle storie d’avventura o le classiche favole per bambini dove i buoni vincono sempre, e così si era messo a leggerne qualche pagina malgrado lo sforzo nel farlo visti i suoi teneri otto anni e il fatto che aveva imparato a leggere solo da un paio di anni. Alcune cose non le aveva capite, ci aveva riflettuto sopra ma niente. La sua testa dava mille significati diversi tra cui scegliere ma secondo Bill doveva pensare con la testa dei grandi per capire davvero. Poi c’erano delle parole davvero strane, la maestra diceva che dovevano farsi aiutare dai genitori e cercare le parole difficili sul vocabolario. Ma né Simone né il suo compagno Gordon volevano che leggesse quelle storie, dicevano che non erano adatte, che doveva leggere qualcosa di più indicato per i bambini. Dal canto suo Bill non li ascoltava mai, faceva sempre di testa sua. Però il vocabolario non lo sapeva usare senza essere aiutato, cioè prima di trovare la parola in questione gli passava la voglia di sapere cosa volesse dire. Così le parole che non conosceva le saltava e basta. Era consapevole del fatto che quando andava a leggere quei libri o vedeva in tv film del genere, poi non riusciva a dormire e vedeva ovunque la possibilità che uno spirito o qualche forza maligna lo stesse minacciando. Ma la curiosità era troppo grande e così anche quella notte si era ritrovato insonne e spaventato mentre il buio della cameretta sembrava nascondere tutte quelle cose che aveva letto nel libro, e tutte quelle cose sembravano volergli far del male. Persino il silenzio metteva paura, mentre le ombre proiettate dalla finestra strisciavano sui muri davanti ai suoi occhi sgranati e terrorizzati. Uno scricchiolio di troppo lo fece sobbalzare, mentre il cuore batteva forte e un brivido freddo gli correva lungo la schiena. Nemmeno il suo rifugio di coperte sembrava in grado di proteggerlo, eppure lì si sentiva sempre al sicuro, abbracciando il cuscino e lasciando fuori tutto il resto. Una luce si accese, facendogli strizzare un attimo gli occhi per il fastidio. Era la piccola lampada che stava in mezzo al suo letto e a quello di Tom. Bill si girò, Tom lo stava guardando con gli occhi mezzi sbarrati e un’espressione assonnata.
-Bill stai facendo un casino mi spieghi cos’hai?- disse sbadigliando e portandosi una mano davanti alla bocca.
Bill non rispose, con la voce di Tom il suo cuore stava piano piano tornando a battere normalmente.
-Non riesci a dormire? Perché leggi quei libri se poi hai paura?- Tom non sembrava voler prenderlo in giro, non l’aveva mai fatto seriamente perché sapeva che Bill era molto sensibile e si offendeva facilmente.
-Io non ho paura.- disse Bill aggrottando la fronte come se dovesse difendere il suo onore.
Tom annuì con la testa. –Certo, certo. Quindi non vuoi dormire con me?-
-No.- Bill si sentì uno stupido a voler fare il grande in quella situazione. Certo che voleva dormire con lui. Altrimenti non avrebbe chiuso occhio tutta la notte, non era vero che non aveva paura. Aveva terribilmente paura. E poi adorava dormire con Tom, da piccoli dormivano sempre insieme, poi avevano avuto un letto ciascuno, ma spesso tornavano a dormire insieme nello stesso letto, specie quando Bill aveva paura oppure un incubo. Tom aveva incubi raramente, di solito aveva un sonno molto tranquillo, non era lui l’irrequieto tra i due gemelli. Anche se Simone gli aveva detto che dovevano abituarsi, perché era molto importante imparare a diventare indipendenti col tempo e che tra qualche anno avrebbero avuto ognuno la propria stanza, lo diceva sempre sorridendo come se fosse una cosa fantastica poter avere uno spazio personale.
-Potrete decorare la vostra stanza come vi piace di più! Sarà bellissimo vedrete!- tutti gli altri bambini avrebbero gridato di gioia a quelle parole. Bill e Tom la pensavano diversamente, la storia della stanza separata gli faceva schifo, non volevano separarsi né diventare indipendenti. Ma Simone non si rassegnava. Dopo il divorzio era diventata sempre molto cauta per trattare i due gemelli. Il loro legame si era stretto sempre di più perché contavano l’uno sull’altro più che su loro madre. Lei lo sapeva, ma era felice di vederli così uniti e protettivi l’uno nei confronti dell’altro. Soprattutto Tom era come l’angelo custode di Bill. Simone vedeva gli altri bambini e non desiderava che i suoi figli fossero omologati. Le madri che si lamentavano dei litigi tra i loro figli, Simone non riusciva a capirle, abituata a vedere i suoi gemelli sempre in sintonia e alla loro litigata tipo che se alla mattina non si parlavano la sera erano di nuovo seduti insieme mano nella mano sul divano a guardare la tv. A scuola facevano parecchi guai e le maestre si lamentavano spesso del loro comportamento, si erano isolati dagli altri compagni anche perché erano molto avanti nel modo di pensare e nel look. E gli altri bambini non li vedevano di buon occhio, soprattutto perché i due gemelli erano molto popolari tra le bambine, che li preferivano agli altri perché li vedevano più particolari e con più stile, cose che sul genere femminile hanno sempre una considerevole influenza. Una volta Simone li stava aspettando all’uscita, i gemelli le stavano venendo incontro e le veniva quasi da ridere perché sembravano snobbare tutti gli altri. Tom era già salito in macchina mentre Bill si era fermato per allacciarsi una scarpa, un ragazzino poco più grande si era avvicinato gridandogli “ricchione!”. Simone per tutta risposta gli aveva gonfiato la faccia a schiaffi. E non aveva avuto un minimo di paura nell’affrontare la madre che tutta infuriata si era messa a gridarle come si era permessa a toccare suo figlio. Bill e Tom la dovettero tirar via prima che Simone prendesse a schiaffi anche lei. Era una gran donna loro madre. Ne erano fieri.
Tom alzò un lato della sua coperta e si spostò per fare spazio. –Bill dai.. io voglio che dormi con me..-
Bill lo guardò, non c’era niente di male. Si alzò piano dal letto scostando le coperte. E si sedette sul bordo scoperto del letto di Tom, esitando. Tom lo tirò giù e lo coprì con la coperta, passandogli un braccio attorno alla vita e attaccandosi a lui, poggiando la testa sulla sua schiena calda. Sentiva che suo fratello tremava ancora un po’.
-Ok avevo paura..- disse Bill sottovoce.
-Adesso ne hai ancora?-
Con Tom che lo proteggeva non aveva più paura, non esistevano più i mostri nascosti nel buio.
Esistevano solo loro due. Bill chiuse gli occhi, strusciando un po’ la guancia contro il cuscino.
-No, non più.-
-Allora posso spegnere la luce?-
-Si..- sentiva che il sonno stava poco a poco tornando, e gli occhi si erano fatti pesanti. Stare abbracciato a Tom, mentre sentiva il suo respiro sulla schiena, lo faceva sentire bene e finalmente al sicuro.
Tom sporse un braccio da sotto il cuscino e spense la luce. Buio. Buio che adesso era soltanto la notte prima del giorno, il momento in cui chiudere gli occhi e far solo una cosa: annebbiare la mente dormendo.

-Kaulitz, interrogato in storia!- disse la maestra Pohl dopo aver guardato l’orologio. Aveva ancora un po’ di tempo prima che suonasse la campanella della ricreazione.
-Quale dei due?- chiesero in coro i gemelli ridacchiando, dai loro banchi in quarta fila, la penultima, la prediletta per non seguire mai le lezioni e disturbare tutta la classe.
-Cerca di fare meno lo spiritoso, Tom. E vieni alla lavagna.-
Bill si nascose continuando a ridere mentre Tom gli diede un calcio sotto il banco. Non aveva ripassato niente il giorno prima, si era chiuso in salone con Gordon a suonare la chitarra. Aveva appena scoperto la sua passione, l’unica cosa in cui davvero voleva cimentarsi, malgrado trovasse noioso dover imparare tutti quegli accordi. Non li ripassava mai e Gordon non gli faceva prendere la chitarra se prima non apriva il libro di musica almeno per mezz’ora. Alcune volte Tom fingeva di leggerlo mentre coi pensieri divagava in tutt’altro. Gordon faceva finta di non accorgersene, almeno così credeva.
Si alzò dalla sedia con la sua camminata strascicata e si fermò davanti alla lavagna, deglutendo.
-Perché non mi parli un po’ di Carlo Magno?- domandò la Pohl mettendosi comoda in sua direzione.
-Già, perché no?- risposte Tom ironicamente cercando di prendere tempo. Nella sua mente continuava a sperare che quella dannata campanella suonasse oppure che la Pohl avesse un improvviso malessere e scappasse in infermeria a farsi visitare, dimenticandosi di lui.
Bill, vedendo il fratello in seria difficoltà, decise di intervenire. In fondo il giorno prima Tom aveva lavorato anche per lui, in un certo senso. Bill preferiva cantare, Tom suonare la chitarra. Bill senza musica non poteva cantare e la musica di Tom senza parole aveva poco senso.
Alzò temerario la mano agitandola un po’ per farsi vedere. La Pohl non lo notò, così decise di attirare la sua attenzione con un sonoro colpo di tosse. Tom cercò di trattenere una risatina. La Pohl finalmente lo vide, alzò gli occhi al cielo sospirando.
-Cosa c’è Bill?- disse rassegnata. Le dita della sua mano esile dalla pelle chiara ticchettavano sul legno lucido della cattedra.
-Io non ho capito niente di Carlo Magno maestra!- esclamò Bill sorridendole e facendo gli occhi dolci. Qualcuno nella classe rise.
-Infatti ce lo spiegherà Tom per bene così lo capirai!- la Pohl sentiva di avere la situazione in mano.
-Tom non sa spiegare, preferirei che me lo spiegasse lei, in fondo è il suo compito!- continuò Bill agguerrito e alzando il tono della voce. Bill non rispondeva sempre male ai maestri, ma per quella donna faceva sempre eccezione. Lui la odiava e lei non sopportava il suo atteggiamento.
La Pohl lo guardò malissimo, aveva voglia di schiaffeggiare quel piccolo sfacciato a dovere.
-Piano con la lingua Kaulitz o ti manderò dal preside, come se fosse la prima volta del resto!-
Bill, per niente spaventato o intimorito, sentì crescere dentro di sé una rabbia tremenda. La campanella d’uscita suonò miracolosamente un po’ per tutti.
-Per questa volta Tom ti sei risparmiato un’insufficienza e tu Bill un rapporto. Ma state molto attenti a quello che fate non sarà sempre la campanella a salvarvi!- detto questo la Pohl prese la sua borsa e il registro dalla cattedra e si alzò velocemente, uscendo dall’aula con aria nervosa. Tom scappò subito in direzione di Bill scansando il resto dei compagni che stava uscendo e che li guardavano. Non sapeva se la loro fosse ammirazione oppure odio. Anzi, non è che proprio non lo sapesse.
-Grazie Bill..- disse a bassa voce Tom prendendo in fretta il portacolori e il diario da sopra il banco e buttandoli a casaccio dentro il suo zaino. Bill si mise in una spalla il suo. –Di niente, io la Pohl la odio ho voglia di distruggerle la macchina.-
Tom rise scuotendo la testa. –Ci penseremo la prossima volta, intanto muoviamoci!- Prese la mano al fratello e lo trascinò fuori dall’aula facendogli il solletico per calmarlo. Bill cominciò a lamentarsi e ridere. Tutti li guardavano, ma a loro non importava. Una bambina bionda si avvicinò a Tom tutta sorridente. Era esile, qualcuno avrebbe detto che sembrava una bambola di porcellana vedendola. Erano i soliti commenti che facevano gli adulti. Niente di più banale. Tom aveva l’impressione di averla già vista altre volte.
-Ciao Tom!- disse senza timidezza cercando di atteggiarsi un po’ come aveva visto fare in tv quando una donna corteggiava un uomo. Tom la guardò e le sorrise. Bill invece la guardò male. Anche se non riusciva a trovare un motivo per guardarla male, non capiva perché sentisse di provare odio anche verso di lei.
-Ciao ci vediamo!- esordì Tom riprendendo a camminare e portandosi dietro il gemello. Bill rimase quasi sorpreso. Di solito Tom adorava “dialogare” con quelle che lo corteggiavano. Di solito. Invece aveva tagliato corto, aveva scelto di non lasciarlo. Forse era per il fatto che Bill contasse quasi esclusivamente su di lui, ma in quel momento si sentì felice, si sentì importante. La bambina ci rimase davvero male. Forse la sua strategia non aveva funzionato. Guardò i gemelli allontanarsi mano nella mano, allegri e uniti come forse non aveva mai visto nessuno, rimanendo immobile, bloccata.
-Lasciali perdere Jasy lo dicono tutti che sono strani quei due!- un’altra bambina la scosse facendole segno di andare. Jasy abbassò lo sguardo e seguì l’amica verso l’uscita. A lei Tom piaceva, non riusciva a farci niente. Dal primo momento che l’aveva visto nel cortile della scuola ne era rimasta affascinata. Aveva pensato tante volte di avvicinarlo e parlarci, finalmente aveva preso coraggio, ed era andata buca. E non si sarebbe arresa così facilmente, se lo promise. Voleva prendere il posto della mano di Bill, voleva che ci fosse la sua a stringere quella di Tom.
-Ma chi era quella?- chiese Bill cercando di sembrare il più indifferente e diplomatico possibile. Gli rodeva, gli rodeva tremendamente che qualcuno potesse provare a portargli via l’unica persona che aveva davvero a cuore. Più a cuore di Simone o di Gordon, e specialmente più di suo padre.
-Non la conosco, però l’ho vista qualche volta se non ricordo male!- rispose Tom alzando le spalle. Sembrava non interessargli più di tanto saperlo.
-Ah..- Bill annuì con la testa spostando lo sguardo da un’altra parte.
-Ah? Perché?- Tom cercava di capire dove stesse guardando suo fratello.
-No.. così, sembrava anche a me di averla già vista.. tutto qui.- Bill cercò di non proseguire oltre quella discussione. Gli dava fastidio e non sapeva più come rispondere. E voleva tornare a casa.
-Bill, davvero, la conosci?- sul viso di Tom dondolavano dei dread ancora corti e biondi. Bill si sentì quasi male a pensare che stesse davvero bene coi dread. Bill si sentiva male ogni volta che pensava qualcosa di bello su Tom. Si sentiva male perché non gli diceva niente, lo pensava e basta. Nessun maschio faceva i complimenti a un altro maschio. O almeno così aveva osservato da quand’era nato. Tranne i padri ai figli o comunque gente di famiglia, amici conosciuti. Ma nessun fratello all’altro.
-Non la conosco! Ti ho detto di no!- gridò lasciandogli bruscamente la mano e allontanandosi a passo rapido.

-Maestra, maestra avrei una domanda!- Karl alzò la mano tutto allegro come se volesse fare quella domanda da una vita. La donna annuì facendogli segno di parlare. Anche lei con aria mite e un sorriso sul volto. La classe era silenziosa, seguiva sempre attentamente quelle brevi lezioni extrascolastiche.
Sorridevano tutti in quella sottospecie di istituto scolastico? Cosa c’era da sorridere?
-Cosa vuol dire SLUT?- Karl ridacchiò scandendo bene la sua magica parola. Corso di inglese per le terze classi elementari. Durava un solo anno, era come una specie di introduzione all’inglese più che un corso. Ancora lo studio della lingua straniera, a parte il francese non era molto sentito in dovere dal ministero.
La donna adesso sorrideva maliziosamente. –Lo sai benissimo cosa vuol dire se stai ridendo Karl!- Bill alzò gli occhi al cielo. Certo che lo sapeva, altrimenti non ci sarebbe stato niente di divertente nel chiedere la traduzione di una parola pulita. Avrebbe dovuto metterlo in punizione per averlo fatto, i bambini non dovevano dire quelle cose. Era una cosa che Simone aveva loro insegnato, a entrambi i gemelli.
Una bambina si alzò in piedi dalla terza fila –Vuol dire Bill!- esclamò concludendo in una sfottente risata. A quelle parole tutta la classe cominciò a ridere di gusto, anche l’insegnante malgrado scuotesse la testa.
Bill si girò verso di lei con odio. Slut. Puttana. Slut cioè Bill. La bambina lo guardò senza ridere, con un sorriso soddisfatto sul volto. Un sorriso che gli sparava in testa. Cosa c’era da sorridere?

-Come se non lo sapessero tutti che ti conci da femmina perché ti piace tuo fratello..- gli sussurrò in un orecchio. Bill la scansò. Non rispose all’accusa. Non faceva niente del genere. Non gli piaceva suo fratello.

La luce del faretto era accecante i primi due secondi, poi passava. Aprì e chiuse gli occhi un paio di volte. Davanti allo specchio con la matita in mano fece passare delicatamente la punta sulla palpebra superiore sinistra. Sembrava facile. Una sottile linea nera adesso stava contornando pian piano il suo occhio chiuso e perfettamente fermo. Sembrava riuscirgli stranamente naturale farlo malgrado la stesse mettendo per la prima volta. Voleva essere più carino, voleva che i suoi occhi fossero neri, molto neri. Voleva essere più carino.. più carina? I lineamenti così delicati –Sembri quasi una femminuccia!- dicevano spesso. Bill era sempre stato un po’ particolare caratterialmente e nella gestualità. Gli erano sempre piaciute tante cose che gli altri suoi coetanei invece detestavano perché appunto erano troppo femminili. Lui adorava mettersi davanti allo specchio e guardarsi. A volte passava molto tempo a farlo. Si metteva nelle pose più strane, la maggior parte delle volte copiava attrici, ballerine che vedeva nei giornali o in tv. Gli sembravano affascinanti, come se guardarle fosse una tentazione, perché sapevano come farsi guardare. Voleva impararlo anche lui. A Tom piacevano le donne truccate in tv. Perché doveva piacere a Tom? Staccò la matita, allontanando la mano. Provò ad alzare un sopracciglio per rendere il suo sguardo migliore. Funzionava, gli piaceva. Sorrise compiaciuto, riavvicinandosi allo specchio per passare la matita nella palpebra di sotto. Il respiro caldo appannava un po’ il vetro complicandogli l’operazione. Dopo qualche minuto aveva finito. Adesso i suoi occhi erano cerchiati di nero, e quell’immagine riflessa sembrava quasi un’altra persona. Provò una delle sue pose standard, una di quelle che di solito gli riuscivano meglio.

Puttana. Le puttane sono femmine, lui non era femmina.

Lucidalabbra, provò a baciare lo specchio per lasciare l’impronta. Era una cosa che in quel momento gli sembrava nuova, elettrizzante. Portò le mani ai fianchi, battendo di più sul fianco sinistro. Alzò un sopracciglio. Notò che un occhio risultava più piccolo dell’altro. Era un difetto che aveva dalla nascita ma in quel modo truccato spiccava molto di più. Ma rendeva lo sguardo più particolare, più sicuro di sé.

-Sei una puttana Bill..- l’ultimo sussurro e si allontanò via ridendo piano.
A Bill non piaceva suo fratello.

Ecco dove l’aveva già vista.
 
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